Quelle vergini giurate alla società patriarcale dimenticate dalla storia
Una mostra della fotografa bulgara Pepa Hristova all’origine del romanzo “Colei che resta” di Renè Karabash

Scegliere di aderire alle regole degli uomini per salvarsi la vita è una delle leggi previste dal Kanun di Lekë Dukagjini, il codice delle norme albanesi che tra le varie, proponeva alle donne che non volevano sposarsi, di diventare ostajnica, vergine giurata, garantendo la castità a vita.
È un fenomeno rimasto in vigore per millenni nelle zone alpine del nord dell’Albania, della Macedonia, Kosovo e Bosnia e coinvolgeva sia donne cattoliche che musulmane. Una realtà trascritta nella letteratura balcanica dall’albanese Ismail Kadare, dalle ricerche della studiosa americana Antonia Young e nelle documentazioni della giornalista e scrittrice Elvira Dones. Un giuramento oggi non più in vigore; un lascito rimasto a poche donne, ormai vecchissime.
A indagare nuovamente il tema del Kanun e della ostajnica è il romanzo “Colei che resta” di Renè Karabash (Bottega Errante Edizioni, pagine 140, euro 17) che arriva per la prima volta in Italia grazie alla traduzione dal bulgaro di Giorgia Spadoni, con una introduzione di Elvira Mujčić.

Partendo da una mostra fotografica della fotografa bulgara Pepa Hristova, l’autrice inizia ad avvicinarsi al tema delle vergini giurate e a studiare per due anni le leggi del Kanun, indagando tutti i testi scritti sull’argomento: «Si tratta di un cambio di sesso costituzionalmente accettato, presentando un giuramento nel quale la donna acquisisce i diritti maschili, di cui le donne lì sono private. Le dispute di sangue sono caratteristiche dei luoghi in cui vige il Kanun. Al giorno d’oggi è rimasta solo qualche vergine giurata, poiché le comunità si stanno spopolando».
Renè Karabash (nome d’arte di Irena Ivanova) apre così il romanzo dal titolo che richiama la traduzione del nome Bekija, “la sopravvissuta”, “colei che si è salvata.” Bekija è la protagonista che narra in prima persona la sua storia, incrociando passato e presente in una scrittura senza interpunzioni.
Bekija è la vergine giurata che all’età di quasi diciassette anni, la notte prima delle nozze obbligate, va dal padre Murrash e gli comunica che vuole diventare un’ostajnica. Il padre accetta a patto che lei sia pura, altrimenti la legge del Kanun non può accettarla. Ma il Kanun prevedeva anche che il pegno da offrire all’uomo che prendeva in sposa la figlia, oltre ai venti buoi, fosse una pallottola che il padre consegnava al futuro sposo, il quale poteva avvalersi di uccidere la donna nel caso il lenzuolo della prima notte di nozze non si fosse sporcato di sangue.
La purezza da possedere, il primato assoluto da manifestare. Se non sei pura devi morire. Lo spargimento di sangue come principio del vigore, aderire al Kanun era un dovere onorevole, una guida assoluta che ufficializzava la libertà degli uomini e la sottomissione delle donne.
Per chi diventava ostajnica, infatti, era prevista una disputa di sangue: lo sposo offeso doveva uccidere un membro maschio della famiglia della sposa, consumare il banchetto al funerale del defunto e poi andare a pagare la tassa per l’omicidio. Sangue che chiamava altro sangue, per almeno dieci generazioni ma che garantiva la virilità a quegli uomini che preferivano morire ammazzati, che ammalati, come dimostrazione palpabile del proprio onore. Bekija sceglie l’annientamento della sua femminilità. Bekija sacrifica suo padre, diventa un maschio, aderisce alle leggi patriarcali e sotterra il ricordo, l’amore inconfessabile per Dana, l’anima femmina e passionale.
Lo stile immediato, a flusso di coscienza, si alterna alla scrittura poetica che Karabash mette al centro di una narrazione ossessiva, intima e feroce, dove la “menzogna come un verme” è il ritornello che si infilza nella mente del lettore. Chi mente e chi no?
Qual è il segreto di Bekija che diventa Matja? Attraverso “una meditazione intima e viscerale sulla femminilità” siamo chiamati ad accompagnare la protagonista nella sua agonia, protratta fino all’età di trentatré anni quando per la prima volta balbetta la sua confessione ad una giornalista arrivata nella zona di Prokletije, “le montagne maledette” a cercare le ultime vergini giurate per intervistarle. Saranno le lettere del fratello a indicare la verità sulla scelta di Bekija, sull’obbligo di diventare ostajnica per sfuggire alla morte e scegliere la vita, anche se la più miserabile fra tutte, fatta di violenza inflitta e subita, di simbolismi interrotti, di leggi e frontiere dove “il matrimonio è una compravendita, l’amore una debolezza”. —
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