Vitaliano Trevisan e l’architettura per leggere la società
A tre anni dalla morte del grande scrittore esce un volumetto che raccoglie cinque scritti, in parte inediti, con saggi e narrazioni
A tre anni dalla morte di Vitaliano Trevisan, il 7 gennaio del 2022, un primo bilancio indica che la sua opera è destinata a durare. Lo testimoniano le pubblicazioni postume, l’attenzione critica, la rivalutazione del suo ruolo di intellettuale estremamente critico verso una contemporaneità che sapeva – a suo dire – di stantio, di moda, di consumismo al massimo grado. A ricordarcelo, la piccola casa editrice mantovana Oligoeditore manda in libreria un volumetto.
“Aberrazioni e prospettive. Narrazioni e saggi di architettura” (p. 100, 13€) raccoglie cinque scritti, in parte inediti, che hanno in comune uno dei temi più cari allo scrittore vicentino: il rapporto tra spazio e tempo, che è presente già nei suoi primi racconti ma soprattutto in romanzi come “I quindicimila passi” e “Il ponte”. La raccolta è incentrata su un inedito narrativo lasciato incompiuto da Trevisan, ma consegnato in questa sua forma provvisoria all’editore, che ora ha deciso di pubblicarlo assieme a quattro saggi di carattere architettonico. La narrazione (probabilmente un racconto) si intitola “Lasciai la terra mia” e si vuole firmata da Aron Grunberg, architetto olandese trasferitosi a Vicenza per motivi di studio.
La particolarità è – come suggerisce il titolo – la lingua in cui il testo è scritto, tutta modulata sullo stile di Vincenzo Scamozzi, il grande architetto di cui Grumberg è studioso. In altre parole, qui Trevisan vuole raccontare Vicenza (la sua architettura ma non solo) con un doppio scarto, temporale e spaziale.
Non solo a un italiano anacronistico (si suppone che Grumberg abbia imparato l’italiano su testi rinascimentali e conosca solo quello) ma anche uno sguardo straniero, abituato alla pianura priva di ogni rilievo. Non siamo lontani, a situazione invertita, da “Black tulips” (l’ultimo romanzo di Trevisan, anch’esso incompiuto) e dalla ricerca di un confronto estremo con altre visioni.
È attraverso quest’occhio straniero che Trevisan racconta l’estraneità architettonica tra Vicenza e il suo progettista principe, Palladio; fra la chiusura intellettuale della provincia e un grande sogno ideale, ospitato ma mai capito. Un tema anche questo caro Trevisan, pensiamo a “Tristissimi giardini”, e che riceve una formulazione teorica in uno dei saggi (il più rilevante, dà il titolo al libro) raccolti nel volume.
Trevisan, come è noto, aveva un forte legame con l’architettura: in parte per gli studi come geometra, in parte perché aveva lavorato presso alcuni architetti, in parte perché aveva lavorato nei cantieri, anche come muratore; tutti elementi di una formazione anomala ma in qualche modo coerente. Ma “Aberrazioni e prospettiva” non sono per Trevisan solo termini architettonici, sono anche modi di leggere il mondo.
La prospettiva è il modo in cui l’Occidente, dal Rinascimento in poi, ha imparato a ordinare il mondo secondo regole matematiche, a dargli un centro, a stabilire gerarchie. Eppure ogni prospettiva comporta aberrazione ai propri margini, perché è lì che lo spazio prospettico si discosta più chiaramente dallo spazio reale. La prospettiva è dunque una rappresentazione della realtà, non la realtà in sé. E in questa dialettica tra prospettiva e aberrazione che si colloca – si potrebbe dire – tutta la scrittura di Trevisan, ma anche il suo modo di guardare alla società e in ultima istanza alla vita stessa: almeno finché ha creduto di poterla vivere.
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