Vittorio Di Giuro, vita di un editore centenario: «Il libro è a un bivio»

La Bompiani e “Il nome della rosa”, la Feltrinelli di Zivago, l’avventura della Bonnard: un’eredità in via d’estinzione

Hans Tuzzi
Vittorio Di Giuro sorseggia un bicchiere di whisky durante una vernice a metà degli anni ’70
Vittorio Di Giuro sorseggia un bicchiere di whisky durante una vernice a metà degli anni ’70

Tra emotività, racconto e tracce di un percorso (a tratti) condiviso, quello che si legge qui sotto è un dialogo tra uno scrittore -Hans Tuzzi- e un editore -Vittorio Di Giuro- ormai ai 100 anni di età. In tralice, non sono poche le risposte che si possono ottenere, leggendo, sulla situazione dell'editoria contemporanea, la più importante industria culturale del Paese. Si delineano, tra le righe, opinioni, disposizioni, un’attitudine critica verso l’esistente che forse si è persa. Ma che resta una lezione. Questo dialogo è un regalo, in definitiva: di Tuzzi a Di Giuro, di Di Giuro a Tuzzi, di Di Giuro e Tuzzi ai nostri lettori.

Iniziamo dalla metà, o quasi. Gli anni Settanta volgono al termine, lei è Direttore Editoriale della Bompiani e Umberto Eco, suo amico personale nonché autore e consulente storico della Casa editrice, le consegna uno stampato dal titolo misterioso e accattivante: Il nome della rosa. Lei, con tra le mani il romanzo d’esordio del noto semiologo, che fece?

«Lo lessi, ovviamente, tant’è che una mia copia porta la dedica di Umberto “al primo lettore”. Conoscevo e stimavo Eco da anni, ed eravamo entrambi bibliofili – ma non al livello che lui poté permettersi dopo il successo mondiale del romanzo. Eco in realtà aveva pensato a un’edizione per happy few presso FMR o Adelphi. Iniziai a leggerlo appena rincasato, e compresi subito d’avere fra le mani uno di quei rari libri che uniscono talento, cultura letteraria e trama, un libro che cattura il lettore, insomma: un potenziale best-seller di altissima qualità. Gli feci cambiare idea: l’editore doveva essere il suo editore storico, Bompiani.

E infatti, sostenuto da un entusiasta Valentino Bompiani, riuscii a imporre al “commerciale” una prima tiratura inusuale per i libri di Eco: diecimila copie (non trentamila come afferma Wikipedia, che forse fa tutt’uno con le ventimila copie della quasi immediata ristampa: un caso, diremmo oggi, di sold out)».

In effetti ricordo che Eco, riandando all’episodio, mi confidò: «Io pensai: ma è impazzito».

«E forse non fu il solo a pensarlo, ma il successo a dir poco travolgente mi confermò che oltre a riconoscere i libri che fanno buona letteratura fiuto anche quelli che si rivelano clamorosi successi».

E ora, molti passi indietro. Lei nasce cento anni fa in Puglia, e si laurea a Napoli perfezionandosi in archeologia mediterranea con Amedeo Maiuri. Però non intraprende la carriera di Indiana Jones ma decide di iscriversi all’Accademia di Arte Drammatica di Roma, con prestigiosi insegnanti e compagni di scena che diverranno celebri. Perché?

«Mi laureai con una tesi sulle parti a monologo nel teatro, e già qui si coglie la vocazione. Perché il teatro? Appunto perché avevo capito, parlandone con Maiuri, che avrei passato la vita non a scoprire civiltà sepolte ma a catalogare cocci nello scantinato di un museo. Così decisi di vivere la mia bohème, andai a Roma, all’Accademia nazionale “Silvio D’Amico”. Ebbi a maestri Orazio Costa e, per la dizione poetica, un Vittorio Gassman diplomatosi l’anno prima. Gli inizi furono duri, e per aiutarmi Eugenio Cappabianca, marito di Evi Maltagliati e amministratore del Teatro alle Arti, mi scritturò in una splendida edizione della “Dodicesima notte”: Salvo Randone era Malvolio, Anna Proclemer Viola, Giorgio De Lullo il duca Orsino e Nino Manfredi un Fest impagabile. Io invece venivo pagato per dire una sola battuta, nella prima scena: “Andate a caccia, oggi, signore?” Insomma, non esattamente un esordio col botto».

A conferma di un carattere irrequieto, per sette anni calca le scene di teatri come lo Stabile di Torino e poi si trasferisce a Milano, la Milano tra i Cinquanta e i Sessanta del Futuro cinque anni prima, come recita una celebre pubblicità di Oliviero Toscani messa in pagina da un altro suo amico, Salvatore Gregorietti. A Milano lei è redattore alla Feltrinelli, come ricorda nelle sue memorie l’allora collega Alvar González Palacios. Era la Feltrinelli che faceva conoscere al mondo Il dottor Živago e Il Gattopardo… Nomi? Aneddoti? Nostalgia?

«Sì, recitai fra gli altri, scritturato da De Bosio, al Teatro dell’Università di Padova, da dove, appena possibile, raggiungevo una Venezia di magia e silenzio, non ancora invasa da orde di turisti mordi e fuggi, dove il Lido era un’oasi di elegante mondanità. Una città per molti aspetti felina, e io i gatti li ho sempre amati, quasi quanto li ama mia moglie Vera. Tuttavia, scoprii che la vita dell’attore non era poi così divertente, anche se mi regalò amicizie intense, come quella con Aldo Giuffré. Tirata fuori la laurea, presi l’abilitazione e vinsi un concorso per l’insegnamento. Insegnai per due anni storia della poesia drammatica e storia della letteratura italiana al Conservatorio di Bari. Ma non mi divertivo. Allora l’amico Attilio Veraldi, che al tempo traduceva ma non si era ancora rivelato l’impareggiabile autore di Naso di Cane, La mazzetta o Uomo di conseguenza, sapendo che la Feltrinelli, grazie anche ai due grandi “colpi” editoriali che lei ha ricordato, era in fase d’espansione e aveva bisogno di nuovi redattori, mi segnalò alla casa editrice all’interno della quale io già vantavo alcune amicizie».

Quali?

«Valga per tutte quella con Mario Spagnol. Venni assunto come redattore. E mi sposai. Per quattro, cinque anni lavorai alla Universale economica con Spagnol occupandomi della saggistica. Successivamente lasciai la Feltrinelli per fare il freelance. E così tradussi molti saggi dall’inglese e dal francese per varie case editrici, in particolare per Mondadori e Rizzoli. Ho tradotto anche qualche romanzo per “ragioni alimentari”. Nomi e aneddoti potrebbero riempire molte pagine, dirò soltanto che dopo aver tradotto Reich un programma televisivo mi cercò in qualità di sessuologo. Non era il caso. Nostalgia, certo: per la giovinezza in sé, per una Milano meno laccata e leccata ma assai più godibile, se solo penso ai concerti improvvisati al Giamaica da grandi nomi della musica e non solo: spesso infatti a Cerri Azzolini e altri si aggiungeva il pittore – e poi scrittore – Emilio Tadini. Ma non mi faccia fare il laudator temporis acti. Il tempo, si sa, l’importante è averlo vissuto».

E poi? Come ci arriva, in Bompiani?

«Ci arrivo dalla Sonzogno, glorioso marchio in disarmo, dove mi avevano chiamato i nuovi proprietari, Alessandrini e Caracciolo che volevano farne una casa editrice popolare ma d’alto livello, puntando sui tascabili. Crearono un “quadrumvirato”: tutto poggiava sul lavoro di quattro editor, ciascuno con un compito diverso. Io dovevo occuparmi della saggistica, Attilio Veraldi della letteratura straniera. L’unico autore in catalogo che ancora vendeva era l’inossidabile Liala, che andai a conoscere fra chintz bonbon e servizi da thè. Come competere con la Universale Economica Feltrinelli, la Bur, gli Oscar? Non funzionò. Il marchio venne acquistato da Fabbri, allora della Fiat, che in quel momento comprendeva anche Bompiani e Etas libri. Il problema era definire la funzione di Sonzogno in un gruppo in cui ci sarebbero stati anche i tascabili Bompiani. Suggerii di abbandonare il filone – pur storico e di successo – dell’editoria economica, e di offrire a un pubblico di lettrici sempre più numerose quello della letteratura popolare. Iniziando dalla negletta Liala».

Colpo da maestro.

«Il mio suggerimento venne accolto. Paolazzi, allora direttore generale della Bompiani e capo del marketing di tutti i marchi del gruppo, ripropose al mercato i libri di Liala. Operazione fortunatissima: si vendettero decine di titoli e di ogni titolo migliaia di copie. A questo punto, ebbi la direzione editoriale della Sonzogno. Forte del successo ottenuto con Liala, proposi le opere di Harold Robbins, autoraccio di gran successo, e feci uscire, primo in Italia, le opere di Stephen King. Mentre la pubblicazione delle opere di Robbins fu mero calcolo commerciale, con King – e precisamente con Carrie, Shining, Le streghe di Salem – feci anche un’operazione culturale. Ritengo infatti che King sia un buon autore, un solido e valido autore. Quando lasciai la Sonzogno, King, divenuto ormai un best-seller, passò a Sperling & Kupfer. Ma io lo avevo “preso con pochi soldi”, avevo fatto un’opera di scouting. Sperling invece fece un investimento commerciale e sborsò un bel pacco di dollari. Proprio come Mondadori quando pubblicò le opere di Clavel di cui io, sempre con Sonzogno, pubblicai, pagando diritti modesti, la prima opera edita in Italia, Shogun, che resta forse il suo titolo più fortunato. Credo d’aver svolto bene il mio lavoro, visto che, per farla breve, da Sonzogno passai a Bompiani quando Oreste Del Buono se ne andò. E qui, appunto, Umberto e Il nome della rosa».

Ecco, lei, che a maggio compie il secolo di età, da quasi vent’anni non è più nell’arena editoriale. Ha persino salutato gli Amici della Domenica, e con essi il Premio Strega. La domanda tuttavia è d’obbligo: sospesa fra mercato e cultura, come era quell’editoria non ancora industria? Era come la Milano d’allora, meno ricca di quella di oggi ma dove, con meno, ci si divertiva molto di più? E quando porre il discrimine? Agli anni Ottanta?

«Da quando l’editoria si è fatta industria e nel campo della produzione libraria sono entrati i grandi colossi appunto industriali che con molti soldi possono comprare gli autori di maggior successo di tutto il mondo, la natura stessa dell’editoria è cambiata. È tramontata l’era della ricerca, delle letture fatte in tutta fretta di notte alla Fiera di Francoforte, dei dattiloscritti più disparati per accaparrarsi prima di ogni altro lo scoop letterario dell’anno; e se la lettura notturna avviene ancora, si tratta solo di una finzione... E questo è il meno. Ci si è abituati alle grandi quantità di venduto, che un tempo, assai rare, permettevano di reinvestire nell’editoria di alta qualità e bassa vendita. T.S. Eliot disse che Faber & Faber poteva permettersi di pubblicarlo in quanto vendeva decine di migliaia di copie di manuali di floricultura».

Oggi però le cose sono cambiate.

«Mi sembra che, complici la civiltà delle immagini e l’analfabetismo di ritorno, gli editori debbano iniziare a pensare a due mondi paralleli: l’editoria spesso facile dei grandi numeri e quella “di qualità”, che vende, in Italia, come negli anni Trenta del secolo scorso. Un bivio dinanzi al quale si possono compiere scelte molto diverse».

E adesso, gioie e dolori, l’ultima sua impresa, che possiamo ben definire il crimine della Sylvestre Bonnard…

«Già, per finanziarla dovetti fare come l’eroe eponimo del romanzo di Anatole France: vendetti la mia collezione di libri rari. Ma non bastò. Trovai un socio generoso e magnanimo in Luca Formenton e benché si trattasse di una Casa che pubblicava books about books, qualcosa di assolutamente inedito per l’Italia, alla lunga nella partita doppia il rosso prevalse sul verde. E questo se pur con una struttura ridotta a tre persone – lei lo sa bene, fu complice – e prestigiosi consulenti esterni come Ludovica Braida, Alberto Cadioli, Mario Infelise, Angela Nuovo, Ugo Rozzo, Alfredo Serrai e altri.

Un tipo di produzione editoriale diffusa e fiorente in Inghilterra in America e in Francia, dove l’histoire du livre è addirittura una disciplina autonoma, non ebbe allora fortuna in Italia. Resta l’orgoglio – sì, l’orgoglio – di aver pubblicato in prima edizione italiana assoluta titoli di autori quali, oltre ai già citati, Bringhurst, Chartier, Darnton, Petrucci, Tschichold, per non parlare dei testi dell’allora sconosciuto, in Italia, Donald McKenzie, saggi importantissimi ai quali oggi si rivolgono un po’ tutti gli studiosi del libro. Una bella e sfortunata impresa che conferma una grande verità: le isole più belle sono le isole scomparse».

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