Dalle ex fabbriche Dreher e Stock alle officine Holt: sulle tracce del passato industriale di Trieste
Non c’è solo il Porto Vecchio a rappresentare il simbolo dell’archeologia industriale: le testimonianze del passato emergono nei rioni di San Giovanni, Roiano, Barriera Vecchia fra riconversioni e progetti da completare
Se negli anni Cinquanta del Novecento il 45% dei triestini era impiegato nel settore industriale e cantieristico, oggigiorno la coscienza di una Trieste industriale va scomparendo. Eppure, risalendo alle origini dell’industria triestina, la volontà di impiantare a Trieste manifatture e fabbriche era ben presente, considerata quale una necessaria evoluzione del porto e della lavorazione delle merci svolte nei magazzini.
Tutt’oggi la città presenta, a livello di sopravvivenze di archeologia industriale, una triangolazione secondo cui, giungendo dall’entroterra carsico, s’incontra quanto conservato della fabbrica Dreher vicino al centro commerciale Il Giulia; dalla direttrice di Barcola Roiano presenta la riconvertita fabbrica Stock e ovviamente il Porto Vecchio; e giungendo invece da Servola rimane ancora presente l’Arsenale del Lloyd, in un ambito marittimo, e le Officine Holt, antesignane di quell’industria metallurgica poi maturata con la Ferriera.
L’ex fabbrica Dreher
Giungendo dal Boschetto, al civico 75 di via Giulia, incombe l’unico edificio sopravvissuto della fabbrica Dreher: il possente basamento di arenaria funge da terreno per la crescita delle paraste che, in prossimità delle torrette, si trasmutano in pilastri medievali.
Lo stile del gotico quadrato viene inoltre rafforzato dalle finestre ad arco ribassato, presenti a coppia nella facciata rivolta verso via Giulia: come scriveva il direttore regionale Ugo Soragni l’edificio trasmetteva «civile decoro» essendo «una fabbrica pensata per il suo inserimento nel contesto urbano». Al di là delle distruzioni avvenute nel 1986 l’edificio è stato anche stravolto dal portale inserito al in via Giulia 75, alla base di una delle torrette: solo il pianterreno conserva ancora l’originaria atmosfera interna, propria della birreria.
I fondatori
Lo stabilimento nacque dalla compartecipazione delle maggiori famiglie triestine dell’epoca: Elio Morpurgo e Pasquale Revoltella figuravano tra i fondatori della “prima società per la fabbricazione della birra”, mentre tra gli azionisti comparivano i Sartorio e la banca Rothschild.
La rapida costruzione - soli 230 giorni, dal 29 maggio 1865 al 15 gennaio 1866 - non venne contraccambiata dalla produzione inferiore alle stime iniziali: dopo i primi anni di attività la fabbrica venne acquistata dall’austriaco Anton Dreher che ampliò gli ambienti con l’esclusiva novità di un impianto completo per la produzione del freddo artificiale. Il compressore frigorifero, rivoluzionario per il 1877, oggigiorno fa bella mostra di sé al Museo della Tecnica di Vienna.
Dopo aver superato la tempesta della prima guerra mondiale, la Dreher si fuse con la birra Pedavena nel 1928-29 giungendo nel secondo dopoguerra all’apice dell’attività industriale. Se già nel 1866 era presente un padiglione adiacente allo stabilimento lungo via Pindemonte, spesso allietato dai concerti del 97esimo reggimento, sarà negli anni Trenta del Novecento che sorgerà nei sotterranei dell’edificio principale la birreria-taverna Dreher. Rilevata dal marchio Heineken nel 1974, la Dreher verrà chiusa a Trieste nel 1976 e la vecchia fabbrica, dieci anni dopo, definitivamente demolita.
Le officine Holt
Scendendo invece in città dalla direttrice dell’Ippodromo di Montebello, attraverso viale Gabriele D’Annunzio, non deve sorprendere la presenza di toponomastica industriale: la zona infatti era un tempo sede di fabbriche, tra le quali figuravano in particolare le officine dell’inglese Thomas Holt. Originario di Manchester, giunto a Trieste nel 1840, Holt inaugurò una ditta di costruzioni di motori e caldaie.
La ditta era situata in via della Madonnina e poi in via Gambini dove tutt’oggi sezioni della fabbrica sopravvivono ai numeri 10 e 12. Non è distante invece la via della Raffineria che ricordava un zuccherificio dei primi anni dell’ottocento fondato dall’imprenditore Ritter.
Sussiste in realtà una confusione sull’effettivo utilizzo degli edifici sopravvissuti: le officine Holt erano qualche metro avanti, mentre i caseggiati attuali erano stati pensati quali sale di lavoro per “giovanetti abbandonati”.
In altre parole, in linea con la passata esperienza di Holt in Inghilterra, quali workhouses per gli orfani e i ragazzi di strada dove imparare un mestiere o, come appare più probabile, essere utilizzati quale forza lavoro a basso costo. La struttura ospitava già 70 ragazzi nel 1871 e, nel 1897, completò questa trasformazione divenendo un riformatorio. Caserma tra prima e seconda guerra mondiale, mensa comunale nel 1960 e infine “Giardini del Borgo” con il progetto odierno dell’imprenditore Francesco Fracasso in fase di realizzazione.
Colpisce, ammirando le facciate di via Gambini, l’utilizzo delle merlature cementizie per il timpano e la scelta, nonostante fossero officine, del rosone centrale. Le finestre vengono ombreggiate con piccoli gocciolatoi scolpiti in pietra e, attraversando i grandi portali, si entra in ambienti pensati come spazi polifunzionali per le macchine industriali di Holt, oggigiorno trasformati in 37 appartamenti di lusso disponibili dal 2025.
L’ex Stock
Arrivando dalla Costiera invece s’incontra Barcola e poi Roiano: Lionello Stock popolò entrambi i rioni, preferendo dapprima Barcola nel 1884. Origine geografica dalmata, etnicamente di famiglia ebraica, Stock fondò con il socio Carlo Camis la prima distilleria a vapore per la lavorazione dei vini, interrompendo un lungo monopolio dei produttori francesi. L’intuizione, a fine Ottocento, del Cognac Medicinal diffusosi in tutto l’impero austriaco favorì grandemente le fortune della fabbrica che, dalla sede di Barcola, fu trasferita nel 1926 a Roiano.
Il complesso industriale, progettato dall’impresa Buttoraz e Ziffer, permise alla Stock di allargare le proprie fortune commerciali, poi decollate nuovamente nel secondo dopoguerra grazie a un uso ante litteram della pubblicità: dal locale della Ginnastica Triestina sponsorizzata Stock, al nazionale di Carosello, all’internazionale dell’arte di Giorgio de Chirico e Renato Guttuso.
La prima parte di via Lionello Stock conserva ancora la “Stock town”: la vecchia fabbrica di mattoni rossi costruita nel primo dopoguerra. Il complesso, recuperato dal 1993, annovera gli edifici per l’Agenzia delle entrate e il Distretto sanitario e i grandi capannoni vetrati.
È ancora possibile ammirare, al civico 2, la vecchia ciminiera e passeggiare in una cittadella dove predomina il motivo del mattone rosso. Si tratta di uno dei pochi luoghi di Trieste dove il mattone non è coperto, ma utilizzato a vista: quasi una trasposizione di una fumosa via di Londra, completa di placche di bronzo, panchine e vecchie bilance.
La Torre dei pallini
Giungendo dall’alto di via Francesco d’Assisi, è possibile scorgere la cima di una torre medievaleggiante che affiora dall’alto del comprensorio di Insiel. La torre poi scompare alla vista discendendo verso via Carducci, ma si ripresenta aggirandosi tra le fronde del Giardino pubblico. Quest’elusiva torre, il cui basamento è visibile costeggiando il quadrilatero moderno di Insiel, rappresentava secondo lo storico Diego de Henriquez il più antico manufatto di archeologia industriale triestina.
Il novarese Dioniggi Ciana, infatti, scelse nel 1806 di costruire in quell’area una fabbrica dedicata alla produzione di stagni di latta e candele di cera. Quaranta operai impiegati e, due anni più tardi, il passaggio alla produzione col piombo. Ci si limitava però ancora ad oggetti di peltro.
Il figlio Giuseppe, nel 1839, convertì la fabbrica alla produzione di pallottole per la caccia: risale infatti a quell’anno la costruzione della torre ad opera del regio perito Angelo Toniutti.
La procedura prevedeva la colatura di piombo fuso mescolato all’arsenico dall’interno della torre: il materiale “piombava” a terra attraverso una piastra forata, raffreddandosi in una vasca d’acqua. Il rozzo sistema passò poi nel 1846 ad Angelo Coen Ara che, modernizzando l’impianto, inserì lo stemma dell’aquila bicipite sul portone le spedizioni e infine nel 1866 alla società tedesca per azioni Heffen.
Nonostante la torre fosse ormai sorpassata la fabbrica produceva un po’ di tutto nell’ambito dei prodotti di ferro: dai tubi alle casseforti. Lo stabilimento fu rilevato nel primo dopoguerra dalla Società Adriatica Ferramenta e Metalli di Venezia e nel secondo dapprima dalla Safem di Padova e poi dalla Edilzini.
La torre, il 19 settembre 1972, fu tra i primi edifici di archeologia industriale di Trieste ad essere tutelato dalla Sovrintendenza alle Belle Arti; ed è in tal senso un’amara ironia come sia invisibile allo sguardo dei passanti, nonostante una certa affezione da parte dei dipendenti di Insiel e di chi ci abita in quel quadrilatero, verso il manufatto.
Scambiata per il Faro
Non sorprende allora come molti schizzi e illustrazioni della città spesso confondano la torre dei pallini con il Faro della Lanterna.
L’esempio maggiormente illustre è il pittore romantico William Turner che, in viaggio in Europa nel 1840, ritrasse più volte la città nei suoi schizzi. La collezione, conservata nel Museo d’arte Tate di Londra con la denominazione di “Trieste, Graz e il Danubio”, presenta un curioso ritratto.
C’è infatti uno schizzo, denominato “Trieste, with the Gulf and Lighthouse; an Urban Skyline, Probably at Vienna”, che ritrae la città dall’entroterra. Forse Turner lavorava in una zona corrispondente all’odierna sede dell’Università di Trieste. La prospettiva infatti ritrae l’Acquedotto, oggigiorno viale XX Settembre, e la sagoma d’una torre con le stesse sezioni e finestre della fabbrica dei Ciana.
Oggigiorno la torre che aveva affascinato Turner ha conosciuto un nuovo “tocco di colore” quando, a seguito di lavori di Wind Tre per l’adeguamento dell’impianto radiomobile, è stata aggiunta un’incongrua copertura azzurra che, sebbene in regola con i vincoli, snatura il ruolo ottocentesco della torre. —
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