La mancata crudeltà di Turetta: «Inesperienza, termine non adatto. Ma è stata data la pena massima»
L’ex procuratore capo di Trieste, De Nicolo: «Si sarebbe potuto trovare un termine più adatto, più adeguato di «inesperienza. Ma, a conti fatti, l’aggravante della crudeltà era irrilevante ai fini della pena»

Si sarebbe potuto trovare un termine più adatto, più adeguato di «inesperienza». Ma, a conti fatti, l’aggravante della crudeltà era irrilevante ai fini della pena, osserva Antonio De Nicolo, ex procuratore capo a Trieste.
E dunque, per quanto possa essere un pugno allo stomaco pensare che le 75 coltellate di Filippo Turetta sul corpo di Giulia Cecchettin non siano state interpretate come l’intenzione di far soffrire la vittima, il magistrato goriziano non si stupisce per le motivazioni della Corte d’assise di Venezia sulla condanna all’ergastolo per omicidio premeditato.
De Nicolo, i giudici sostengono che non vi è certezza che Turetta volesse infliggere alla vittima sofferenze gratuite. Condivide?
«Quello che conta è che per Turetta c’è la pena massima. Considerato che sono stati riconosciuti i motivi abietti e futili, c’era già un’aggravante da ergastolo. Aggiungerne un’altra non avrebbe avuto alcuna influenza sulla pena, posto che non esiste un ergastolo maggiorato in presenza di più aggravanti».
Come si giustifica la mancanza di crudeltà con così tante coltellate?
«Nel momento in cui qualcuno volesse impugnare la sentenza davanti alla Corte d’assise d’Appello, contestando il mancato accoglimento dell’aggravante della crudeltà, al 90 per cento, in presenza di un dispositivo corretto, si troverebbe davanti una dichiarazione di inammissibilità per carenza di interesse».
Come spiegare al cittadino, e ancora di più ai parenti della vittima, che quei 75 colpi di coltello sono arrivati per “inesperienza”?
«La crudeltà è la volontà efferata di colpire, di fare del male per il gusto del male. Non c’è dubbio che un giudice, dopo aver ricostruito un fatto, può sostenerne l’assenza. E il numero delle coltellate non è l’unico criterio. Non c’è un paletto prima del quale non c’è la crudeltà e dopo il quale sì, la crudeltà c’è. È una valutazione di merito. Per poter dire se sono d’accordo o meno, peraltro, dovrei leggere gli atti. Nessun dubbio, invece, sulle altre contestazioni mosse a Turetta. Ben più dirompente sarebbe stato non riconoscere un motivo non abietto e futile quello che ha portato Turetta a uccidere, una questione che riguarda l’intero perimetro della drammatica vicenda che è costata la vita a Giulia. Sul tema della crudeltà, invece, si è trattato di indagare l’animo di Turetta nel solo momento dell’azione omicida. Ci si è chiesti se in quei minuti è stata esercitata una furia malvagia, indipendente dalla dinamica della morte. Se insomma le sofferenze sono state gratuite. La risposta è stata no, ne prendiamo atto».
Stesso discorso per lo stalking, che pure non è stato riconosciuto?
«Si è stabilito che non c’era nella vittima uno spavento continuo riferito a Turetta. Anche in questo caso parlano le carte».
Ma si poteva evitare il concetto dell’“inesperienza”?
«Sì, è un termine non particolarmente felice. Si poteva essere forse più precisi, ma non è sempre facile spiegare le conclusioni a cui si è arrivati. E, a volte, non c’è il tempo di rileggere riga per riga, in presenza di tante sentenze sul tavolo».
L’eco mediatica di questa vicenda è stata più vasta di altre. Perché?
«Credo per due motivi. Da un lato Turetta è sembrato incarnare l’ideale del bravo ragazzo, dall’altro è emerso lo spessore della famiglia della ragazza, in particolare di un padre che si è stagliato per limpidezza e dirittura morale. Un padre che non ha chiesto pene esemplari, una persona, colpita da una tragedia immane, davanti alla quale levarsi il cappello».
Che ne pensa del ddl sul femminicidio?
«Il provvedimento non risolve nulla, anzi, complica inutilmente le cose». —
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