No alla sentenza Cecchettin, le coltellate di Turetta sono barbarie: la giurisprudenza trovi altre parole

Dai magistrati una narrazione inaccettabile dello scempio sul corpo di Giulia: non c’è tecnicismo che tenga. La società civile ha bisogno di sentire parole meno sterilizzate di fronte a queste morti che si riproducono senza sosta

Fulvio ErvasFulvio Ervas
Filippo Turetta, condannato all'ergastolo per aver ucciso Giulia Cecchettin
Filippo Turetta, condannato all'ergastolo per aver ucciso Giulia Cecchettin

Ho preso un coltello da cucina, a lama larga. Lo uso per tagliare la cipolla o affettare la carne bollita. Sono andato nel mio orto e mi sono inginocchiato davanti a un’aiuola, dove fra poco pianterò i pomodori. E ho iniziato a colpire la terra. Dopo venti colpi ero già provato. Settantacinque è una quantità spropositata.

Ho colpito prima da inesperto, a casaccio, un colpo in alto e uno in basso, come mi veniva, senza alcun progetto. Colpire per colpire, come un gioco. Poi ho provato a farlo da esperto. Colpi mirati, possibilmente nello stesso punto, sempre più profondi, per arrivare nel cuore della terra, per spegnerla.

L’aiuola se n’è fregata delle mie diverse tecniche. Non ha gridato, non ha pianto. Nemmeno s’è mossa. Il mio tentativo esperto l’ha lasciata indifferente. Nessun colpo ha fatto uscire quel liquido rosso che chiamiamo sangue, quando abbiamo a che fare con i nostri simili.

Un corpo è un’altra cosa. Forse si piange dal primo colpo e ci si dispera colpo dopo colpo, sino al settantacinquesimo, come è successo a Giulia Cecchettin. Forse si chiede pietà o perdono. Forse si chiudono gli occhi, perché si comprende l’abisso nel quale si è precipitati.

La giurisprudenza interviene a morto sul tavolo autoptico. Ha un suo linguaggio, assai distante da quello semplice e viscerale dei comuni cittadini.

La crudeltà giuridica non è la crudeltà di cui si discute al bar. Quello del linguaggio potrebbe essere una faccenda su cui lavorare, ma non è certo motivo per delegittimare chi si trova nella complessa funzione di valutare le follie dei comportamenti umani.

Eppure, la lettura della sentenza a carico di Turetta, inquieta l’animo comune. Si afferma nella sentenza che « l’aver inferto 75 coltellate non si ritiene che sia stato, per Turetta, un modo per crudelmente infierire o per fare scempio della vittima...».

Le 75 coltellate inflitte da Turetta sul corpo di Giulia «non sono segno di crudeltà ma di incapacità»
La redazione
Filippo Turetta durante l'interrogatorio come imputato nel processo per l'omicidio di Giulia Cecchettin

E più oltre: «Non si ritiene che tale dinamica, come detto certamente efferata, sia stata dettata, in quelle particolari modalità, da una deliberata scelta dell’imputato, ma essa sembra invece conseguenza della inesperienza e della inabilità dello stesso...». E ancora: «Egli ha dichiarato di essersi fermato quando si è reso conto che aveva colpito l’occhio: mi ha fatto troppa impressione».

È il linguaggio di una narrazione. ll giudice scrivente, come nei romanzi, ha definito il comportamento dell’assassino. La vittima non c’è più. Il suo corpo è diventato come la terra del mio orto: massa che non ci racconterà la sua versione. Cosa ha visto negli occhi dell’assassino. La forza che ha sentito nei suoi colpi. Le sue parole. Ha percepito l’inesperienza dell’assassino? Gli ha suggerito, a ogni colpo, di essere colpita più adeguatamente, in modo che il terrore finisse subito?

È evidente che, al momento, ergastolo è ed ergastolo rimane. Ma, da padre di una figlia, che parole terribili in questa narrazione!

Da padre, privo del linguaggio della giurisprudenza, mi viene da dire che un ragazzo sbalestrato non poteva avere comportamenti esperti nell’uccisione della sua, presunta, amata. Quindi è ovvio che abbia agito come un cieco che colpisce a caso, spinto solo dal voler uccidere. È questa spinta, non l’esperienza, la causa.

In casi come questi non è oggettivabile una qualità omicida derivante dall’imperizia: ha fatto ciò che la sua mente aveva progettato, ammazzare, nel modo che in cui anche un principiante eccelle. Colpendo. Sarebbe stato esperto se si fermava a cinque coltellate? E sarebbe stata diversa la portata della tragedia? Quello che ha fatto è stato molto. Troppo. Settantacinque è, umanamente, troppo.

Certo, la sentenza dice molte altre cose, riconosce la colpa, insomma fa il suo lavoro. E s’inoltra in quella foresta intricata di vittime, famiglie, Caino, educazione, società, umanità traballante. Ruolo e percorso faticoso.

Ma la società civile ha bisogno di sentire parole meno sterilizzate di fronte a queste morti che si riproducono senza sosta: esperto o inesperto, ammazzare chi si crede di aver amato è una tragedia imperdonabile, inaccettabile. Un segno di follia lacerante. È la barbarie.

Anche la giurisprudenza, prima o poi, dovrà trovare parole che arrivino a chi patisce. 

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