Vendite in volo grazie alle reti oltreconfine

Nel 2015 l'export del Nordest è cresciuto al ritmo del 4,7% ma è l'internazionalizzazione la chiave del balzo commerciale. La mera riduzione dei costi ha funzionato solo in parte, ecco le strategie di successo

Anche nel 2015 il Nordest (che per l’Istat comprende Emilia Romagna e Trentino Alto Adige) ha trainato le vendite all’estero di made in Italy. L’area, evidenziano gli ultimi dati dell’Istituto di statistica, ha cumulato un +4,7% sul 2014. Il Veneto conquista posizioni sia in Europa sia fuori (+5,5% e +5,1%). Il Friuli Venezia Giulia patisce invece un -0,9 in Europa mentre accelera del 4,4% fuori Schengen. «Un rallentamento imputabile ai “mezzi di trasporto”, che passano per la regione da +60% a +4%» conferma Alessandro Terzulli, chief economist Sace. Fortissimo, e scontato, l’impatto della crisi russa a Nordest (-28,9%), mentre crescono il Regno Unito e gli Stati Uniti. Insomma: il Nordest nel 2015 ha imparato a parlare inglese. Ma non mancano le sorprese: come l’Angola, il Sud Africa, Thailandia e Indonesia. «Non esiste più un mondo bipolare dove i blocchi emergenti dalle grandi opportunità si contrappongono al mondo storico che decresce», spiega Terzulli. «La crisi ha sparigliato le carte e ha messo nel cassetto le etichette di comodo come Brics, Pvs. Siamo di fronte a un mix di mercati eterogeneo, difficile da etichettare. In questo quadro – evidenzia Terzulli – i Paesi avanzati tornano a prendersi un ruolo importante. Usa e Uk vanno bene e non è solo questione di cambio, ma di domanda». «Le sorprese: Thailandia, Messico, Algeria, Angola non sono affatto da dare per scontate, post crisi russa – aggiunge –. Buone le performance dei Paesi del Golfo, Emirati e Arabia Saudita. Nel 2020, non dimentichiamo, c’è l’Expo a Dubai».


Un percorso non esaurito
«L’export per noi è un percorso non ancora esaurito – conferma Terzulli – ma oggi serve più organizzazione e non guasterebbe l’introduzione dell’export manager, su cui sta investendo il Mise. Eppure, anche l’internazionalizzazione sta cambiando. La mera riduzione dei costi ha funzionato in parte. Solo i processi volti a presidiare i mercati hanno avuto successo, e il Nordest sta ancora colmando il divario».
Questi, dunque, i dati di una nuova geografia, dove anche le definizioni non hanno più valore e dove, soprattutto, archiviate le etichette come «Paesi emergenti» esistono ora singoli mercati per singole imprese. Ma si può ancora parlare di export in un mondo di aziende internazionalizzate dove i prodotti nascono ovunque?


Modo novecentesco
Per Tiziano Vescovi, professore di Economia e gestione delle imprese a Ca’ Foscari, «l’export è un modo novecentesco di pensare all’internazionalizzazione». «Il mondo è cambiato – riflette Vescovi – Moleskine che è un prodotto italiano è fatto in tanti Paesi. Da dove parte e dove arriva una Moleskine?». «Parlare di export non ha più senso, neanche per la pasta italiana, il cui grano viene importato dal Canada. Ma diventare internazionali non significa avere una mentalità nazionale e portare fuori i prodotti. È qualcos’altro».
Ca’ Foscari sta lavorando da mesi su diversi indici per capire quanto un’azienda è internazionale: organizzazione, mercati ma anche cultura. «Un’impresa internazionale non può avere solo dipendenti italiani né solo cultura italiana, anche se questa è fondamentale per creare i prodotti. Se nessuno capisce e conosce la cultura indiana, non può penetrare in India». Ca’ Foscari ha già contattato una decina di aziende per la fase-test: i primi risultati arriveranno quest’estate.
L’università non è solo ricerca ma competenze. «Distribuire all’estero è sempre più complesso – conferma Romano Cappellari, docente di marketing e retailing all'Università di Padova e direttore del Master in Retail management al Cuoa – non basta individuare un mercato, serve conoscerlo e affidarsi a un distributore locale è spesso uno sbaglio. Perfino colossi come Valentino hanno commesso molti errori».


Fame di made in Italy
«Nel mondo c’è per fortuna molta fame di made in Italy ma servono professionalità – conferma il docente –. Purtroppo il Nordest ha ancora un approccio artigianale. Vedo tuttavia alcuni cambiamenti: oggi le aziende cercano più un laureato marketing che un commerciale per esplorare i mercati, Calzedonia, ogni anno, tiene a colloquio al Cuoa tutti i laureati del master in Retail. E le nuove generazioni sono più disposte ad andare oltreconfine». «È necessario ragionare per portafogli di mercato, evitare eccessive concentrazioni in un Paese e sostenere la presenza fisica con l'e-commerce – spiega Cappellari –. Ma attenzione: perché se a Roma la miglior location è il centro storico, non vale lo stesso a Giacarta. E in India il lusso è nelle hall degli alberghi. Le strategie sono diverse, le regole flessibili».
Conoscere un mercato è fondamentale. «Le famiglie cinesi non possiedono una moka Bialetti, non hanno un fuoco piccolo nei fornelli, non sanno come si prepara un caffè», racconta Vescovi. «La Cina è il Paese del the e il caffè rimane una semplice bibita calda, meglio se pronta e facile da preparare. Portare una caffettiera italiana nelle case cinesi è dunque l’ultima impresa impossibile da compiere se si vuole vendere caffè italiano tradizionale», precisa Vescovi.


Effetto “big data”
A monte di tutto esiste però, ancora, un “gap informativo”, che è la base prima da colmare per muoversi con qualsiasi aereo. Ne è consapevole Fabrizio Macchia, responsabile del team Moove. Moove nasce tra Udine e Trieste ma ora la sede è a Milano. Si occupa di big data, ovvero organizza e dà senso a tutta una serie di numeri utili alle imprese per puntare in maniera consapevole e certa su un mercato attrattivo. «Dove andare, perché, con chi mi scontrerò: domande banali ma di difficile risposta» spiega Macchia.
È successo con il distretto triestino del caffè: l’analisi è partita a livello mondiale, con sotto-analisi nelle aree del Magreb, Balcani e Medio Oriente. Sette i Paesi selezionati alla ricerca di canali distributivi. Ne sono uscite informazioni ricche e inattese: «Abbiamo scoperto che il livello di interesse turco per il decaffeinato solubile è altissimo. E che il caffè crudo ha un uso salutistico come dimagrante. Insomma: abbiamo aperto un nuovo capitolo, con canali di vendita online».


Dialogare con il consumatore
È la tecnologia l'arma di questo millennio. Lo conferma anche Christian Nucibella, fondatore di Filoblu a Santa Maria di Sala, specializzata in e-commerce con un portafoglio di 30 clienti fashion.
«Oggi il posizionamento del brand è digitale – dice Nucibella – chi vende deve avere un piano commerciale integrato a una strategia digitale, ovvero: dai social all’e-store». «Molte aziende, oggi, sono più brave a fare il prodotto che a venderlo, quindi sono deboli nei mercati fuori Italia ed Europa – aggiunge – ma abbiamo molti casi di successo di piccole realtà come Duvetica in mercati lontani come il Giappone. Vendere online impatta la produzione ma richiede competenze: parliamo di diversi mercati, varie valute, più piattaforme, non per solo per l'utente finale ma anche per distributori e negozi». Il segreto? «Farsi trovare dove il cliente cerca – conferma l’imprenditore – avere una logistica vicina al mercato, diventare un’azienda internazionale. Lo stiamo facendo anche noi».
«L’ecommerce – chiude – è un laboratorio: si parla al consumatore finale ma si ottengono traffico e dati di ricerca. Oggi non possiamo vivere senza digitale e l’e-commerce è tutto: è il sito che presenta la collezione, una newsletter che invoglia a vedere un prodotto, è un’App, è assistenza ai clienti su whatsapp, una foto su Instagram. Ma l’azienda deve essere pronta a dialogare con il suo consumatore».
Insomma: il punto di partenza non è più, o non solo, il cancello del capannone.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © il Nord Est