L’epopea del volley azzurro iniziò con Elisa Togut: «La mia erede? Paola Egonu»

La fuoriclasse goriziana vinse l’oro ai mondiali 2002 e fu eletta miglior giocatrice: «Nella squadra di Velasco rivedo la nostra stessa fame di vittorie»

Viviana Zamarian
L’opposto Elisa Togut con la maglia della nazionale durante uno dei suoi attacchi micidiali
L’opposto Elisa Togut con la maglia della nazionale durante uno dei suoi attacchi micidiali

La voce dello speaker al PalaTriccoli di Jesi ci sembra di sentirla. “Vola Elisa, vola”. Perché quando Elisa Togut schiacciava in pipe non ce n’era per nessuno. Perché sì, Elisa Togut in campo volava. Talento e coraggio. Un opposto letale, con il numero 3 cucito sul petto. Fuoriclasse goriziana della nazionale di volley che nel 2002 a Berlino vinse l’oro ai Mondiali.

Fu suo l’ultimo punto contro gli Usa, fu lei la migliore della competizione. Il suo urlo, fu quello di un Paese intero rigonfio di emozione e orgoglio. Era l’Italia di coach Marco Bonitta. Una nazionale bellissima, come lo è quella di oggi. In cui la Toga rivede la stessa fame di vittoria. Oggi, a 46 anni, il suo mondo non è più la pallavolo. Ma lei continua a guardarlo.

Elisa l’accento non l’ha perso...

«Il mio accento del Nord Est non mi abbandona, anche se vivo a Torino da 12 anni».

Di cosa si occupa adesso?

«Gestisco proprietà familiari, mi sono laureata in Scienze motorie e faccio la mamma di Tommaso ed Emma».

La pallavolo non fa più parte della sua vita?

«No, non più. Per rimanere ad alti livelli bisogna dare una disponibilità totale, sottraendo tempo alle persone a me care. Per una donna non è facile conciliare tutto».

Quindi ha dovuto fare una scelta.

«Sì e io ho dato priorità alla mia famiglia».

Ma la pallavolo continua a seguirla?

«Sì, certo. Soprattutto la Champions».

Quest’anno alle Final four ci sono tre squadre italiane.

«A conferma che il nostro campionato è il migliore del mondo».

La favorita?

«L’Imoco. Spero se la giochi alla finalissima con un’altra italiana anche se VakifBank ha un roster di grande livello».

Che cosa fa di Conegliano una squadra così forte?

«L’impronta solida della società, la mentalità vincente e la possibilità di investire».

Ma quando vede le partite non le manca giocare?

«Eccome, tantissimo».

Che cosa in particolare?

«L’adrenalina del match che ti spingeva a dare il massimo dandoti sensazioni positive».

Cosa significava per lei stare in campo?

«Fare la cosa che amavi di più al mondo. È stata una fase totalizzante della mia vita che mi ha dato e tolto tanto».

Che cosa le ha tolto?

«L’adolescenza. Sono andata via da casa a 14 anni e da lì è stato un vortice di nazionali giovanili fino al salto in A1».

Rifarebbe tutto?

«Sì. Sei nel tuo mondo, vivi solo per quello. Certo, forse farei altre scelte, ma lo dico con una consapevolezza diversa».

Iniziò a giocare a pallavolo a 8 anni nell’Azzurra, perché questo sport?

«Avevo un carattere chiuso e introverso e mamma pensò che uno sport di squadra mi avrebbe aiutata».

E fu così?

«Sì. Ero brava anche con il salto in alto. Ma quando ho provato la pallavolo mi piacque tutto, me ne innamorai».

Debuttò in A1 nel Modena, arrivandoci dalla B2. Temeva questo salto?

«Il mio debutto fu un’emozione fortissima. Giocavo tra le migliori al mondo. Ero giovane ma mi sentivo pronta».

Lei riservata nella vita, ma in campo si rivelò subito una protagonista.

«Avevo il carattere giusto. La paura non mi paralizzava, la trasformavo in grinta e nella giusta spinta a fare meglio. Mi sentivo coraggiosa».

Lo stesso coraggio che ebbe per chiudere il tie brek contro gli Usa ai Mondiali.

«Toccai il cielo con un dito, quella medaglia d’oro era un sogno.

Era il gruppo di Lo Bianco, Anzanello, Piccinini. Quale fu la vostra forza?

«Il talento ma soprattutto il gruppo. Sono legami che restano ancor oggi. La morte di Sara Anzanello è stata un dolore enorme per tutte, eravamo convinte che avrebbe vinto questa battaglia».

Rivede la vostra scintilla nell’attuale Italvolley?

«Sì, c’è la stessa voglia di vittoria come hanno dimostrato con l’oro olimpico».

Ai Mondiali si ripeteranno?

«Sì, sono giovani e il gruppo è affiatato. Se tanti talenti sono guidati bene, si ottiene il massimo da ciascuno di essi».

E loro hanno una guida chiamata Julio Velasco, che allenò anche lei.

«Metà anno con la nazionale maggiore. Portò mentalità e innovazioni tecniche. Era empatico e sapeva insegnare».

Le Olimpiadi le ha viste?

«Certo, le ragazze erano bellissime. Piangevo con loro».

Chi le è piaciuta di più?

«La palleggiatrice Alessia Orro, è migliorata tantissimo».

Che ricordo ha delle sue?

«Sia a Sidney che ad Atene sono state esperienze incredibili. Sei in una fase così bella della tua vita che ti coinvolge completamente».

Chi è la sua erede?

«Paola Egonu, un opposto di enorme talento. Nel suo ruolo è la migliore».

Quest’anno in A1 ha debuttato la friulana Cda Talmassons, poi retrocessa.

«Peccato perché le potenzialità c’erano ed era stata una bella escalation. Il salto in A1 è difficile, il livello cambia davvero tanto».

Il coach è Barbieri che la allenò a Crema.

«Sono state due stagioni importanti, in cui salimmo in A1. Barbieri era sempre positivo, difficilmente si arrabbiava e questo è importante».

Arrivò a Crema dopo la maternità. Fu difficile?

«Non è facile riprendere e conciliare l’organizzazione familiare con gli allenamenti ma tutto si può fare. Poi certo bisogna far delle scelte».

Cosa la faceva arrabbiare in campo?

«Qualche scelta arbitrale e se non mi alzavano la palla».

I suoi punti di forza?

«La perseveranza e la cocciutaggine che ti danno la spinta a non mollare e rimanere agganciati ai risultati».

E quelli deboli?

«La difesa, un punto dolente di noi opposte lungaccione...».

Le sarebbe piaciuto giocare in un altro ruolo?

«No, lo amavo. Attaccare mi dava soddisfazione, chiedevo sempre la palla al palleggiatore».

Il tuo colpo era la pipe. Gli ultimi due punti ai Mondiali furono dalla seconda linea.

«Ti dava la possibilità di avere un ampio raggio di attacco. Mi sembrava di volare».

Ha giocato in 9 club tra cui Vicenza, Jesi e Perugia, ha vinto tutto, tranne lo scudetto. Rammarico?

«Tanto. L’ho inseguito, ci ho creduto nelle stagioni nelle Marche. Peccato».

Che insegnamento le ha lasciato lo sport?

«Il rispetto delle regole in tutti gli ambiti».

Torna in Friuli?

«Sì, appena posso a casa ci torno sempre volentieri».

Un consiglio alle giovani pallavoliste?

«Perseverare nonostante le difficoltà».

C’è anche un’altra squadra in Friuli che si sta giocando l’A1, la Tinet Prata.

«Spero che ci riesca, così come mi auguro che la Cda torni a salire. Il Friuli si merita di stare nella massima serie». 

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